È notte e su una strada scura e abbandonata si stanno correndo delle gare illegali d’automobili, finché non si sentono in lontananza le sirene della polizia e tutti sono costretti ad interrompere lo spettacolo, montare sui propri mezzi e scappare. Titoli di testa. Da questa gara emergono due personaggi in particolare a bordo di una vecchia Chevrolet del 1955 modificata per correre. Sono il guidatore e il meccanico, due personaggi senza nome. I due ragazzi sono in costante cerca di sfidanti per fare qualche soldo, e per tenere la macchina sempre competitiva. Sulla strada vengono superati da un fastidioso pilota che guida una auto decisamente più nuova della loro, una G.T.O. al quale volante l’uomo si sente al sicuro.
Dopo una pausa ad un caffè, meccanico e guidatore trovano nella loro auto una ragazza, una hippy, che i due ragazzi accettano come compagna di viaggio.
Con lei partecipano ad una gara notturna che riescono a vincere e grazie alla quale vincita i tre trovano un posto dove riposare. Il giorno dopo sulla strada, ancora una volta, i tre incontrano l’autista a bordo della sua G.T.O. e decidono di fare una gara con lui mettendo in palio l’automobile: il primo che arriva a Washington prende l’auto dell’altro.
Inizia così un viaggio che è in realtà una corsa lenta in cui i concorrenti si sorpassano più volte senza una vera e propria voglia di vincere, un viaggio in cui spesso fanno anche tappa insieme, fino anche a correre il rischio che la ragazza decida di andare proprio con l’autista della G.T.O. se non fosse che forse sta nascendo qualcosa tra lei e l’autista della Chevry truccata, qualcosa che però non sboccia. La ragazza decide infatti di non arrivare a destinazione con nessuno dei due concorrenti, e li abbandona entrambi per andarsene con un motociclista.
Quando vedo un film di Monte Hellman so che per la maggior parte dei casi avrò a che fare con uomini o donne di poche parole, a volte anche muti per la maggior parte del tempo, incapaci ad esprimersi se non attraverso solo quello che fanno, e la morale che li accompagna di volta in volta, sempre personalissima.
In un contesto di generi cinematografici invece, Monte Hellman sembra un regista a metà strada tra Robert Altman e Roger Corman, un regista cioè che ha uno stile ben definito e che riesce ad applicarlo a qualsiasi genere appunto, dando al film quel tocco tutto personale che gli permette di distinguersi dalla massa di produzioni tipicamente hollywodiane, come era accaduto per i bellissimi western da lui diretti precedentemente a questo film, privi entrambi della maggior parte di quegli elementi d’azione così cari ai pistoleri.
La stessa cosa accade anche in questo piccolo gioiello se si guarda al genere con le automobili, così spettacolare nelle immagini ad alta velocità, ma già spettacolare anche nella scelta di protagonisti spesso violenti, ribelli di cause perse. Come per il western, anche in questo caso Monte Hellman preferisce eliminare l’azione, quella cioè propria delle gare per esempio, preferendo la lunga preparazione dell’evento (la ricerca dello sfidante, nella bellissima sequenza in cui il meccanico fa la scheda di tutte le auto parcheggiate) e scegliendo di raccontare le gare stesse con pochi tagli brevi ed essenziali, o con un’inquadratura unica che spesso non svela nemmeno tutta la scena, e che come la notte, non ti permette di vedere bene quel che succede, ma di percepirlo, di sentirlo come il rombo del motore, come ormai parte del mondo in cui siamo immersi.
Tra le scelte decisive di questo film non si può non citare il cast: i due protagonisti sono il musicista e compositore James Taylor (il guidatore) e il batterista dei The Beach Boys Dennis Wilson (il meccanico), due artisti che hanno prestato il loro volto ad una coppia perfetta che si muove su un’auto scassata e vincente. Una coppia complementare come poche, la testa e il braccio di un meccanismo perfetto che si inceppa solo quando arriva il cuore: la giovane autostoppista.
Ed anche di fronte alla delusione di essere abbandonati, l’uno dall’altro, o entrambi da tutto e vedere il loro mondo interrompersi di colpo, l’atteggiamento disilluso non cambia, mai, in una visione monotona dove l’unica cosa sicura è la sfida con un altro, se non oggi, domani.
Di fronte al cuore dunque, anche questa coppia che per tutto il tempo, attraverso i loro silenzi, i loro sorrisi smorzati, ci ha dato l’impressione di essere imbattibile, di sapere sempre che cosa è giusto fare al momento opportuno, diventa una coppia di perdenti solitari nel momento in cui non riescono trattenere con loro l’autostoppista, lo spirito davvero libero di un paese che non si lascia mettere da parte (viaggia tutto il tempo scomodamente sui sedili di dietro), che non si lascia dominare dalle ossessioni (la macchina, la sfida, il viaggio senza meta verso la vittoria) ma che decide invece di abbandonare tutto: e così la giovane hippy (Laurie Bird) molla anche l’unica cosa che ha, il suo zaino, pur di andare via con l’ennesimo sconosciuto, verso l’ennesima avventura di cui non sa nulla.
L’amore libero non si lega a nessuna passione per la macchina, per l’auto, non fa parte di un ingranaggio nel quale stridono le posizioni austere (quasi anarchiche) della coppia e quelle nettamente capitalistiche del guidatore (Warren Oates) della fiammante G.T.O.
Ma l’amore che va via fa male, come lo sguardo di James Taylor pronto alla prossima sfida, con una ferita che questa volta sanguina davvero. Leggenda dice che il finale sia venuto in sogno a Monte Hellman, mentre un altro regista, Richard Linklater, tra is dici motivi per cui dice di amare questo film, al terzo punto spiega che per lui Strada a doppia corsia sembra un film per il circuito drive-in, girato però da un regista francese, probabilmente facendo riferimento alla Nouvelle Vague ed al tentativo, riuscito, di ricreare una sorta di amour fou su quarto ruote.
buona visione.