Per oltre una trentina di anni in Danimarca sono state sterilizzate decine di migliaia di donne. Di come questo sia potuto accadere, questo film non se ne dà troppa cura di renderlo più chiaro che con un cartello a fine proiezione. Di come faccia però di tutto per complicare che questa importante informazione arrivi al pubblico durante il film, di per sé più scioccante di qualsiasi struttura narrativa del thriller, è davvero un mistero, forse il vero mistero di Paziente 64 – Il giallo dell’isola dimenticata (2018) di Christoffer Boe.
Di come io ci sia arrivato a questo film, è un altro mistero, perché ad attirarmi era stato il plot il quale, non accennando all’ispirazione a scenari realmente esistiti, parlava invece di tre cadaveri trovati murati vivi in una stanza. Letto così mi aveva subito fatto tornare alle mente un film come Giallo napoletano (1979) di Sergio Corbucci, senza un vero e proprio filo logico, e così senza nemmeno delle vere e proprie motivazioni se non con questa suggestione mi sono avvicinato al lavoro di Boe. Mi è bastato poco per realizzare però che non ero a Napoli e che non era un film di Corbucci.
In questo caso infatti siamo in Danimarca dove si sa, da quando lo ha scritto Shakespeare, c’è del marcio, e in questo caso sono tre cadaveri trovati murati in una stanza, e del quale caso se ne occupano lo scorbutico ispettore Carl (Nikolaj Lie Kaas) e il suo assistente Assad (Fares Fares) a qualche giorno dal trasferito in un altro distretto di polizia.
La coppia di poliziotti collega la morte di queste tre persone con la carriera di un medico razzista che ne approfitta per sterilizzare donne musulmane che si rivolgono a lui in caso di aborto. E’ questo il caso anche della compagna proprio di Assad che si rivolge alla stessa clinica gestita dal medico. Per risolvere il caso però, va cercata una persona, quella che ha murato le tre vittime e i cui cadaveri sono stati trovati a distanza di oltre dieci anni.
Quando ci sono di mezzo sbirri dal pessimo umore, centri medici e una persona apparentemente scomparsa, io penso sempre alle strutture dei noir classiche messe in riga dal grande Raymond Chandler, uno dei padri di questo tipo di letteratura, e penso che un film come questo, che aveva tutt’altro da dire, ne poteva fare a meno di questi modelli classici che rendono invece la narrazione contemporanea poco credibile, con grossi pericoli di cadere in tranelli tipici dei film d’azione degli anni ottanta, come mostrare il distintivo e chiedere ad un capitano di una barca di tornare indietro.
Così il potenziale di un discorso come quello della sterilizzazione di massa, applicata in un paese come la Danimarca, si perde nei meandri di una narrazione troppo complessa che cerca di creare mistero dove non se ne sente bisogno.
Paziente 64 è, ahimè, anche un film che muore praticamente subito, perché tu sai già che quando Assad si presenta come personaggio dicendo che questo è il suo ultimo incarico, sarà quello che alla fine morirà o rischierà di morire per poi portare il film a conclusione, e questa cosa, quando avviene è più irritante dello stesso caotico finale nella stanza del medico razzista. Da capire se la colpa è della regia, della sceneggiatura, o del romanzo scritto da Jussi Adler-Olsen, dal quale il film è tratto.
Un film che non lascia nulla se non un appunto alla fine, tutto sommato la cosa più interessante del film, su questa lato marcio della Danimarca che non conoscevo. A me Fares Fares come attore, che ho scoperto nel molto più interessante Omicidio al Cairo (2018) di Tarik Saleh, mi è piaciuto anche in questo film, sebbene non mi ha dato l’impressione di essere stato gestito bene.
buona visione.