Adriano (Riccardo Scamarcio) è un ricco industriale che ha un grosso problema con la legge: è stato trovato in una stanza d’albergo privo di sensi, con una ferita alla testa, accanto al cadavere della sua amante. Accusato di omicidio, Adriano ha solo una notte per sostenere la sua difesa con Virginia (Maria Paiato), una sorta di avvocato a fine carriera specializzato nel preparare gli accusati a difendersi di fronte ad un interrogatorio.
Con particolare attenzione ai dettagli, Virginia chiede che gli venga raccontata tutta la storia che c’è dietro la morte di Laura (Miriam Leone), scoprendo che la coppia aveva fatto sparire il corpo del giovane Daniele Garri, ancora vivo, dopo aver causato un incidente stradale nel quale Garri era rimasto coinvolto. Sulle tracce della scomparsa del figlio si sono attivati anche il padre e la madre del ragazzo.
Ci sono molti punti interessanti in Il testimone invisibile (2018) di Stefano Mordini e sono quasi tutti legati alla sceneggiatura (prima stesura di Oriol Paulo e stesura finale di Stefano Mordini e Massimiliano Cantoni) abile nello sfruttare il gioco delle verità alternate, dei diversi punti di vista dello stesso racconto, che rendono una storia abbastanza semplice in un più complicato gioco di specchi, fino al twist finale. Il meccanismo infatti funziona come una macchina già collaudata (Rashomon (1950) di Akira Kurosawa e Rapina a mano armata (1955) di Stanley Kubrick fanno sempre scuola) alla quale però manca la benzina necessaria perché il film sia davvero convincente.
Di fronte infatti ad una sceneggiatura ricca di espedienti, crolla la messa in scena di Stefano Mordini (regista anche del più sincero Provincia meccanica (2005) e il meno riuscito Pericle il nero (2016) sempre con Riccardo Scamarcio) il quale si affida ad un cast di lusso, senza aggiungere molto di più anzi, dando l’impressione in certo momenti di aver perso il controllo degli attori. A difesa di questa impostazione molto teatrale può può venire in soccorso il fatto che metà del film si svolga in una stanza d’albergo, ma non è una purtroppo una scusa abbastanza sufficiente per giustificare una recitazione ed un montaggio (soprattutto dei dialoghi) in stile “sceneggiato Rai” anni sessanta. La verbosità del testo infatti, scade spesso in un ritualistico spiegone che ogni dieci minuti riprende le fila del discorso, rendendo banali o forzati la maggior parte dei plot points del film.
Riccardo Scamarcio sembra cercare il personaggio tutto il tempo senza mai coglierlo, mentre Maria Paiato (la migliore assieme a Fabrizio Bentivoglio nel ruolo di suo marito) è un continuo seguirsi di primi piani che mettono in risalto solo due occhi spiritati senza che le venga mai concesso il giusto spazio perché il suo personaggio riesca a cambiare.
Per Miriam Leone ci si affida ad un semplice taglio di capelli. E’ proprio questo in realtà il problema della maggior parte dei personaggi di questa storia: nessuna vera evoluzione, nessuna vera emozione che possa in qualche modo toccare le corde del pubblico, sia di fronte alla perdita di un figlio, sia di fronte a quello che sembra essere il tema principale al quale il regista si mostra interessato: il potere nascondere la verità, può comprare la propria innocenza, ma l’ostinazione di una famiglia può comunque fare in modo che la verità oggettiva emerga. In sostanza: troppa trama e poco cuore.
L’uso del drone (o delle inquadrature aeree sui palazzi, così come sull’albergo nel quale avviene il fattaccio) è troppo spesso riempitivo e mai narrativo, a dimostrazione di un film che ha nella sequenza finale il suo punto di arrivo più forte, nel gioco si specchi il suo intreccio, e nei dialoghi e la messa in scena il suo vero punto debole.
Tanta voglia di fare un bel film, ma anche tanta (forse troppa) sicurezza che l’impianto narrativo tenga da solo.
buona visione.