Un adolescente sordomuto entra per la prima volta in un collegio per ragazzi affetti dalla stessa patologia. Il gruppo che lo accoglie è una specie di tribù (da cui il titolo) che oltre ad aver sviluppato delle regole interne su base gerarchica, hanno anche ricreato un sistema economico nel quale i più grandi sono gli sfruttatori, compresi gli adulti che gestiscono il collegio, e i più piccoli gli sfruttati, compresi i nuovi arrivati e i più deboli. E’ questo il caso del nuovo arrivato (interpretato da Grigoriy Fesenko), che deve trovare una propria posizione a suon di pugni, battendo il capo della camera da letto alla quale è stato assegnato.
Guadagnatosi i rispetto con la violenza, si spalancano per lui anche le porte dell’amore e dell’inferno: il protagonista perde la testa per una ragazza che, assieme alla sua compagna di stanza, si prostituisce nel parcheggio dei camionisti, con la prospettiva di andare in Italia.
Scorribande notturne, pestaggi, risse, sfruttamento del lavoro e della prostituzione, sigarette come fossero caramelle, e tanto peggio, in quella che è la vita di un gruppo di adolescenti in un complesso istituzionale del paese.
The Tribe (2015), l’esordio al cinema di Miroslav Slaboshpitsky, può sembrare un esercizio di stile, complicato, sicuramente, ma pur sempre une esercizio di stile: il film è infatti completamente dialogato nella lingua dei segni, senza sottotitoli, per volontà stessa del suo autore (anche la sceneggiatura porta la sua firma). E’ la prima volta in assoluto nella storia del cinema, ed è un vero e proprio azzardo, questo è sicuro.
Il rischio infatti, come in tutti gli esercizi di stile, è che ne soffra la comprensione del racconto, che invece , proprio grazie a quello che è il vero esercizio di stile di The Tribe, quello cioè dell’uso del pianosequenza, non perde mai i soggetti dal quadro e mostra sempre tutto quello che deve essere mostrato, dialoghi compresi. L’effetto riuscito è quindi che proprio la storia riesce ad emergere nonostante ci sia una difficile accessibilità ai dialoghi (il film è oggettivamente molto dialogato) che una drammaticità a volte un po’ esasperata.
Il risultato finale però è eclatante, a prescindere da quello che è uno dei finali più cruenti e meglio riusciti del 2015, perché la storia sembra procedere senza un vero e proprio obiettivo, mentre questo obiettivo cresce e si complica man mano che la storia va avanti, centellinato e ben pesato, sul quale ogni volta si aggiunge e si toglie, come un bacio in un fatiscente sottoscala, o un passaporto strappato a morsi per disperazione.
Molte scene davvero forti (su tutte l’incidente al parcheggio dei camionisti e il finale) con attori sempre in parte, anche se il terreno sul quale si muovono a volta vacilla quando sembra di tornare in Ungheria ai tempi di 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni (2007) di Cristian Mongiu e My Joy (2010) di Sergey Loznitsa, perché rimaniamo in Ucraina e quello che ci mostra anche il regista Miroslav Slaboshpitsky è lo stesso mondo crudele che gira solo ed unicamente attorno al denaro, in mancanza di parole.
Un film riuscito sulla violenza (e violento), dove però è molto difficile riuscire ad elaborare a pieno la scelta da parte del regista di immortalare quella che probabilmente è l’immagine di questo paese (sesso, violenza e denaro) attraverso una comunità molto chiusa come quella di un collegio, e per dirla tutta, anche di sordomuti. Qui il dilemma sull’esercizio di stile, trova il terreno fragile, come quello delle sabbie mobili.
buona visione.
[…] The Tribe di Miroslav Slaboshpitsky – Il piano è la base della sequenza. […]
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